8 MARZO

Roma -

Alle operaie della Fiat di Pomigliano d'Arco che, rompendo la paura dei capi e la repressione dell'azienda ma, anche, dei ruoli in famiglia, sono state in prima fila nei blocchi.

In prima fila durante le cariche della polizia e nelle manifestazioni scoprendo, nella fatica e nel freddo, la libertà della ribellione.

A queste operaie e alle tante operaie della Fiat, di tante altre fabbriche che vedono messo in discussione il loro posto di lavoro, con la paura di una vita più difficile, più oppressa.

Alla loro determinazione e alla loro forza.


A tutte le lavoratrici che, mediante la legge 30, si è codificata la loro inferiorità; se vogliono lavorare devono accontentarsi di un salario due volte più basso; alle disoccupate e alle precarie, considerate "esseri svantaggiati" perché il loro lavoro è solo una concessione dei padroni; a tutte le lavoratrici che devono fare salti mortali per far quadrare i conti; che devono lottare ogni giorno contro il carovita, contro condizioni d'esistenza divenute sempre più insicure e misere.

A queste lavoratrici, alle disoccupate, alle precarie che resistono ogni giorno e non si piegano.


Alle lavoratrici delle fabbriche tessili dal nord al sud, dalle grandi fabbriche alle piccole ditte, spesso nascoste agli occhi di tutti per poterle sfruttare meglio.

Alla loro lotta contro i padroni che oggi licenziano centinaia di donne perché hanno delocalizzato gli impianti, dopo che hanno realizzato profitti grazie al lavoro nero, con orari fuori da ogni regola contrattuale e salari che sono una vera offesa.

Un lavoro fatto di umiliazioni, di ricatti, di pressioni e molestie sessuali.

Gli abiti luccicanti, venduti a prezzi impossibili nei negozi, se potessero parlare racconterebbero della fatica, della paura di essere licenziate, della rabbia di dover accettare ogni ricatto, sopruso, per poche centinaia di euro.


Alle lavoratrici del terzo settore, delle cooperative sociali, delle associazioni e degli enti no profit, mal pagate, supersfruttate, continuamente sotto il ricatto degli appalti, intimidite e licenziate quando denunciano le carenze e lo smantellamento dei servizi socio-sanitari e che lottano contro la precarietà, per i diritti e la dignità.

 

Alle lavoratrici del pubblico impiego, chiamate al maschile "fannulloni", ma che sono per prime a pagare, a caro prezzo, la compressione dei diritti, i tagli al salario e dei servizi sociali erogati dallo Stato. Alle donne che lavorano nella sanità, nella scuola che vedranno la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro femminile. 


Alle lavoratrici delle ditte di pulizia a cui i padroni negano condizioni salariali e diritti elementari; alle lavoratrici dei servizi, alle tante lavoratrici sempre più precarie, sul cui lavoro e sui loro miseri salari, si arricchiscono in molti.

A queste lavoratrici che nessun padrone potrà mai piegare.


Alle donne che sono umiliate, offese, mobbizzate, dai padroni grandi e piccoli, da dirigenti o capiufficio, che devono subire per il loro diritto al lavoro ogni tipo di pressione, dai moderni posti di lavoro alle campagne.

Alle lavoratrici che non si piegano e che denunciano il maschio violentatore.

 

Alle donne migranti, cacciate nella clandestinità e negate di ogni possibilità; alle donne straniere, dalla schiena piegata per la fatica dei lavori più umili e alle quali si offre intolleranza, razzismo ed xenofobia.

 

Alle donne che subiscono violenza, che ha molte facce: il volto della guerra e dell'odio razziale, della povertà ma anche quello di una "cultura trasversale" a tempi e luoghi, poco propensa a valorizzare le donne quanto, piuttosto, a relegarle nel ruolo di vittime.

La violenza alle donne non è una questione di ordine pubblico, non è un problema di nazionalità.
E' un problema storico e culturale.

E' la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell'uno e all'oppressione dell'altra.

La violenza è espressione del patriarcato, passato e presente della nostra società, non una sua aberrazione: se c’è patriarcato, se c’è arroganza di genere, c’è anche violenza.

Una violenza che, anche quando si fa stupro, non è mai violenza sessuale ma violenza sessuata; che non esprime un desiderio ma la sua negazione, poiché lo scopo è la dominazione, l’umiliazione, la manifestazione del disprezzo, l’annullamento dell’autonomia.

Chi legifera in difesa delle donne, legifera contro le donne. Quando i corpi delle donne sono il pretesto per accelerare l’iter di alcune tra le norme più pericolose e razziste, la posta in gioco non è la libertà femminile, ma la guerra e la paura.

La paura è l’arma potente che serra le porte delle case, facendone prigioni volontarie; la paura stringe le ginocchia, rende corti e rapidi i passi; accelera il respiro; la paura chiude gli occhi e rinfocola il pregiudizio; la paura serve solo a chi vuole una società di guerra.

Una società di soldati e di belle donne: una società basata sullo stupro.


L'8 marzo è una giornata di lotta, di ribellione, di unità, di forza delle donne contro i padroni, contro questo governo dei padroni.

Un governo impegnato a ridurre ulteriormente i diritti del lavoro salariato e che punta, essenzialmente, alle donne con particolare sadismo.

La detassazione dello straordinario è stata finanziata con i fondi destinati ai progetti e ai centri contro la violenza. E' stata cancellata la legge contro le dimissioni in bianco. Si prepara l'abolizione del diritto alla pensione di vecchiaia a 60 anni, la riduzione del tempo dei congedi di maternità e un peggioramento delle condizioni del lavoro notturno.

L'8 marzo è la giornata in cui in tutto il mondo le donne, più sfruttate e oppresse, si alzano in piedi.

E, quando lo fanno, fanno davvero paura.