Green pass, perché non ha a che fare con la sicurezza nei posti di lavoro
Dal Nazionale - Finalmente, come auspicato da USB in più occasioni, si è aperta la discussione sull’obbligo vaccinale per tutti, vera misura sanitaria, da non confondersi con l’utilizzo del green pass su alcune categorie di lavoratori, che misura sanitaria non è.
Vale la pena specificare questo concetto per uscire dalla semplificazione che sta caratterizzando il dibattito, per cui alla fine se sei critico sul green pass sei un no-vax, ma anche perché una corretta definizione di green pass è utile per comprenderne al meglio lo scopo del suo utilizzo dal governo Draghi/Brunetta.
Il green pass, nato per consentire gli spostamenti fra paesi diversi, si ottiene con la vaccinazione o facendo un tampone, spesso un tampone rapido. In entrambi i casi, non si ha nessuna certezza che colui che ha il green pass non sia comunque portatore del virus. Quindi utilizzare l'obbligo del green pass per riempire nuovamente uffici e aziende, rinunciando giocoforza al distanziamento e, magari, Ministro Bianchi docet, anche ai DPI, è un grosso rischio poiché il vaccino riduce notevolmente la trasmissione del virus (alcuni studi danno una riduzione dell'82%), ma non totalmente e il tampone, soprattutto quello rapido non garantisce nelle 48 ore successive. Insomma, il green pass non è garanzia di rientro in sicurezza.
È quindi evidente che l’obbligo del green pass applicato al lavoro non ha a che fare con la salute pubblica e neanche con la sicurezza sui posti di lavoro, ma è solo un lasciapassare attraverso il quale far ripartire la produzione nelle aziende, far tornare al lavoro i “fannulloni del pubblico impiego” (come dimostrano anche le recenti dichiarazioni di Brunetta sullo Smart working) sempre in funzione del sostegno alle imprese, eliminare misure di contenimento costose e ridurre le responsabilità dei datori di lavoro. Senza entrare nel merito di uno strumento (una patente per lavorare) di per sé aberrante che si presta ad utilizzi decisamente inquietanti.
D’altronde da Mario Draghi non ci aspettavamo niente di diverso, visto e considerato che è stato messo a governare il nostro Paese per garantire il profitto alle imprese e, con il PNRR, le riforme gradite alle grandi lobby finanziarie europee. Affrontare la questione green pass senza inserirla in questo scenario più complesso rende la discussione monca e favorisce la polarizzazione sulle posizioni più estreme, impedendo ragionamenti più articolati. Con la conseguenza che l’attenzione sul green pass, alimentata anche dai principali mezzi d’informazione, finisce per far lavorare nella massima libertà Draghi che di fatto sta ridisegnando il Paese e sicuramente non lo fa nel senso che anche la pandemia ci ha indicato. Nessun serio investimento su sanità, scuola e ricerca pubblica. Né in termini economici, né di sistema. Nessuna lotta alle disuguaglianze. Al contrario, riposizionamento dell’asse portante del Paese unicamente a difesa del profitto. Insomma, la spallata definitiva al sistema solidaristico che, con tutte le sue contraddizioni ha caratterizzato l’Italia del Novecento.
Il green pass, sta dentro queste dinamiche. Se invece si vuole parlare di contrasto all’epidemia avendo come riferimento prioritario la tutela della salute pubblica, è ineludibile affrontare il tema dell’obbligo vaccinale e, parallelamente, la questione delle vaccinazioni dei paesi poveri, senza la quale difficilmente si arriverà al superamento definitivo di questa drammatica situazione. Torna quindi prepotentemente d’attualità la battaglia sull’abolizione dei brevetti, che come USB abbiamo lanciato già nelle prime settimane della pandemia, ma che fatica a trovare spazio nel dibattito pubblico.
Noi riteniamo che la pandemia abbia messo in evidenza l’esigenza di un Paese diverso da quello messo in ginocchio dal Covid.
Un paese che metta al centro la salute pubblica e la persegua attraverso l’utilizzo degli strumenti, a partire dal vaccino, che la scienza mette a disposizione e con interventi strutturali che adeguino la sanità pubblica al compito che è chiamata svolgere. Un Paese che faccia del diritto allo studio un pilastro del proprio sviluppo con investimenti su infrastrutture e personale che consentano di eliminare le classi pollaio garantendo istruzione di qualità. Un Paese che si sciolga dal ricatto delle multinazionali attraverso il rilancio della Ricerca Pubblica, liberando dal profitto quel sapere per sua natura universale. Insomma, un Paese che combatta le disuguaglianze. Non il Paese di Draghi e Brunetta.
USB Pubblico Impiego