Il Natale di Andrea
Vi raccontiamo la storia di Andrea, un operaio cavatore, che è morto a 33 anni, qualche giorno prima della festività del Natale.
E' morto alle 7 di mattina a Carrara, dove lavorava, schiacciato da un blocco di marmo.
Ha lasciato la moglie e una bimba di 3 anni.
Questa tragica notizia è apparsa solo su un quotidiano e, grazie all'informazione libera e indipendente della "rete", dei network locali e globali, è stata veicolata e divulgata.
Infatti, risulta difficile leggere sulla carta stampata nazionale o ascoltare dalla televisione, notizie di questo genere.
Ormai, le morti sul lavoro non fanno più notizia, è routine quotidiana.
Queste morti non vengono considerate come una vero e proprio dramma civile ed emergenza sociale.
Tanto è vero che nella legge finanziaria, neppure un euro è stato stanziato a questo scopo.
Anzichè regalare miliardi di euro ai padroni mediante la riduzione del cuneo fiscale, aumentare le spese militari, quelle dei fondi pubblici per la scuola e le università private, esentare dall'ICI gli istituti ecclesiastici, elevare a 750 mila euro i tetti massimi per gli stipendi dei manager, sarebbe stato doveroso destinare queste somme per la sicurezza sul lavoro.
Invece, sono troppo preoccupati a lanciare gli allarmi sul debito pubblico, a indicare nella pubblica amministrazione e nei propri dipendenti la causa dell'indebitamento, a perorare la necessità di riformare ancora una volta il sistema pensionisto e di avviare quella integrativa anticipando persino di un anno il furto del TFR/TFS.
Sono troppo impegnati per capire chi, dopo le feste, ha realmente vinto il record degli incassi tra i "film panettoni" del 2006.
Questa morte non merita notizia.
Invece, questa storia ve la riproponiamo così come noi l'abbiamo appresa, perchè non cada nel silenzio, perchè è questo proprio quello che vogliono.
Il silenzio.
Andrea si è alzato dal letto alle cinque, come tutte le mattine. Ha preso il caffè, un goccio di latte, una fetta di pane. Poi si è vestito e ha preparato lo zainetto. Faceva così ogni giorno, come gli scolari. Però Andrea Giovari non era uno scolaro. Era un operaio, un cavatore, cioè andava in cava, vicino a Carrara, e tirava via il marmo dalla montagna. Aveva 33 anni, quasi un ragazzo, però lavorava da 17 anni, perché aveva iniziato prestissimo.
Adesso non c’è più, è morto, ma se fosse sopravvissuto, lo Stato gli avrebbe detto di lavorare ancora per 27 anni, di portar su e giù i pezzi di travertino, di non fare il pigro, perché le aziende devono essere competitive, e l’Italia non si può permettere che uno se ne vada in pensione a 58 anni, dopo poco più di quarantatre anni di lavoro, e si metta in panciolle, come un fannullone, a farsi mantenere dalla collettività, magari a 800 o anche a mille euro al mese senza muovere un muscolo...
Andrea è uscito di casa alle sei meno dieci. Fischiettava. Lo ha detto il suocero che fischiettava, ha detto che era allegro, non lo sapeva cosa aveva scritto per lui il destino quella mattina. Che poi è una grande ipocrisia chiamarlo destino, perché non è così. Chi l’ha ucciso non è il destino, che non agisce mai di sua iniziativa, è il mercato. La necessità di lavorare a certi ritmi, con certi rischi, certo orari, certe procedure, certe quote di produzione obbligatorie.
Il suocero dice che fischiettava, e dice di aver scherzato con sua moglie, cioè con la suocera di Andrea: «E’ allegro stamane lo gnomo...». Lo chiamava così, il suocero, Giorgio Fabiani, con il solito spiritaccio toscano. Andrea non era proprio uno gnomo: era un cristo alto un metro e novanta.
Non era nato in miniera, da ragazzo aveva lavorato in una ditta di caldaie, faceva l’installatore. Era un lavoro più tecnico, meno faticoso, ma forse non gli bastava a vivere. Perché aveva deciso di sposarsi con una ragazza della sua età, e tre anni fa arrivò la bambina.
Giorgio, il suocero, dice che amava quella bambina alla pazzia. Appena aveva un minuto libero si metteva a giocare con lei, ci perdeva tempo, si divertiva, si emozionava. Chissà se la bambina conserverà qualche ricordo del suo papà, e chissà cosa gli dirà Barbara, la mamma, per spiegargli quello che è successo.
Siccome fare il caldaista non gli bastava per vivere, e per mantenere la famiglia, aveva deciso di andare in miniera. Lavoro più duro, ma qualche soldo in più.
Si è mosso alle 6 meno dieci, dunque, e ha salutato il suocero che abita nel suo stesso palazzetto in via Colonnata nel rione di Caina. E’ arrivato in cava verso le sei e mezzo.
La cava si chiama cava n.68, Poggio Silvestre, località Bettogli. E’ scavata a mezza montagna, più o meno a 400 metri di altezza sul mare. Andrea ha iniziato il lavoro alle sette, insieme a un gruppo di una decina di compagni. Cosa è successo? E’ successo che alle 7,30 una grande pala meccanica ha sollevato un blocco di marmo gigantesco, di circa 40 tonnellate, cioè 400 quintali, cioè 40 mila chili. Il blocco di pietra forse era lesionato, fatto sta che si è spaccato in due, e una metà è scivolata via dalla pala ed è finita proprio addosso ad Andrea, lo ha schiacciato contro la parete del monte, gli ha levato il respiro, lo ha soffocato, lo ha ucciso.
I compagni si sono dati subito da fare, sono riusciti a liberarlo, lo hanno steso a terra, è arrivato un medico in elicottero, da Carrara. Ha guardato Andrea, gli ha sentito il polso, ha detto che era morto.
Hanno avvertito Barbara, i suoceri, la mamma di Andrea. Come si fa a raccontare la disperazione, le lacrime, il pianto, il giaccio nelle vene di quelle persone alle quali dicono a bruciapelo, una mattina, che un blocco di marmo ha schiacciato tuo figlio, tuo marito, e che non c’è più?
Andrea era un donatore di sangue e aveva detto che se moriva voleva regalare i suoi organi. All’ospedale hanno provveduto all’espianto. In città si è sparsa la notizia e c’è stata grande emozione. Il sindaco ha dichiarato il lutto cittadino, il sindacato quattro ore di sciopero.
Noi abbiamo voluto raccontarvi quelle poche cose che siamo riusciti a conoscere di questa storia, della vita di Andrea, della sua morte, del dolore di Barbara, anche se sappiamo benissimo che su nessuna televisione e su nessun giornale nazionale troverete niente. Perché?
Perché la morte sul lavoro non fa notizia, è troppo frequente, è quotidiana. Ne muoiono due o tre al giorno. Ieri è morto un ragazzo di 34 anni anche a Ragusa. E un operaio è in fin di vita a Brescia.
Può essere che l’informazione si pieghi all’abitudine? Che dica: il destino, il destino...Che si rifiuti di analizzare come le morti sul lavoro siano il frutto di un certo modo di lavorare e di produrre, di una filosofia del guadagno, dell’impresa, dello sviluppo, della competitività, che non è una filosofia innata e inevitabile, non viene dall’iperuranio: è solo il punto di vista dei ricchi, degli imprenditori, che è stato imposto come senso comune senza alternative, a tutti.
E i giornali, e l’intellettualità, accettano, tacciono, restano immobili, e rassegnati, e subalterni.
Non è vero che non si può fare nulla per rovesciare questo senso comune.