LA DEMOLIZIONE DEL CONTRATTO NAZIONALE. DALLA CONCERTAZIONE ALLA COMPLICITA'
Commento all’Accordo Quadro di Riforma degli Assetti Contrattuali
Chi aveva sperato che con le trattative intercorse tra governo-confindustria e sindacati si arrivasse finalmente a dare respiro a quella emergenza salariale, che ormai viene riconosciuta da tutti, può darsi pace.
Nella premessa dell’Accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali, firmato lo scorso 22 gennaio 2009, scompare ogni riferimento, anche puramente retorico, alla questione della difesa e dell’incremento del potere d’acquisto dei salari che, da parte di CGIL-CISL-UIL, aveva rappresentato il paravento iniziale della trattativa; si parla, invece, di efficiente dinamica retributiva dove, per efficienza, si intende lo stretto rapporto di dipendenza con le necessità competitive delle aziende.
Le nuove regole rispondono all’obiettivo di rilanciare la crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l’aumento della produttività che, se non andiamo errati, sono gli stessi principi in nome dei quali nel 92/93 si sono stilati i famigerati accordi di luglio che hanno, senz’altro, raggiunto lo scopo di garantire benefici e profitti alle imprese ma dai quali è partita la demolizione del potere contrattuale dei lavoratori.
Oggi, l’accordo quadro sulla riorganizzazione del modello contrattuale (e sindacale) si propone di dire la parola definitiva sull’esistenza di un sindacato che si ponga ancora, come fine, la tutela dei lavoratori, di costituire la loro reale rappresentanza sociale.
Le organizzazione firmatarie ottengono in cambio l’ampliamento della loro funzione di controllo sociale, attraverso l’istituzionalizzazione di organismi di potere economico quali gli enti bilaterali.
In un mondo che sta registrando l’implosione del mercato, dopo che lo stesso era assurto nei decenni trascorsi a religione, trascinando nella sua rovinosa caduta la finanza e l’economia, ancora si ha il coraggio di proporre a chi paga le pesantissime conseguenze di questa crisi di accollarsi ulteriori arretramenti sul terreno salariale e dei diritti.
Ma esaminiamone meglio i contenuti.
La riforma degli assetti contrattuali ha una durata “sperimentale” di quattro anni: si tratta di un accordo sulle regole e procedure della negoziazione e gestione dei contratti collettivi nazionali e di secondo livello.
Nuove regole, sia per tutto il settore privato che per il settore pubblico, che sostituiscono peggiorandole pesantemente le attuali regole in vigore dagli accordi 1993.
La contrattazione collettiva è su due livelli: il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria e la contrattazione di secondo livello (come definito a sua volta per ogni settore).
Al contratto collettivo nazionale di categoria (CCNL), che avrà durata triennale sia per la parte salariale che per la parte normativa, spetterà il compito di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori del settore, senza alcuna indicazione relativa al livello di questo trattamento nella evidente certezza che non dovrà dare luogo ad alcun reale aumento del potere d’acquisto dei salari. Vorremmo ricordare che è sempre stata questa, almeno fino agli accordi di luglio sopra ricordati, la funzione del contratto nazionale, mentre la scala mobile serviva al recupero dell’inflazione che tra un rinnovo e l’altro erodeva il valore reale degli stipendi.
I salari a livello nazionale saranno stabiliti sulla base di un parametro previsionale, elaborato da un soggetto terzo, neppure identificato nell’accordo, relativo ad un nuovo Indicatore dei Prezzi al Consumo Armonizzato in ambito europeo per l’Italia (in sigla IPCA).
Questo indicatore, che sostituirà il famigerato tasso d’inflazione programmata, sarà depurato dalla cosiddetta inflazione importata, cioè dall’aumento dei prezzi energetici - petrolio, gas, benzina – e pertanto non coprirà l’inflazione effettiva; in più, esso non coprirà l’intera retribuzione ma sarà applicato ad una parte di essa, ad un valore retributivo (una specie di salario convenzionale) da individuarsi nelle specifiche intese di settore.
Ne consegue che la retribuzione globale risulterà ancor più svalorizzata, considerato anche il fatto che le verifiche e gli eventuali recuperi tra l’inflazione prevista e quella reale, sempre con l’esclusione dei fattori energetici, saranno decisi non a livello di categoria ma a livello interconfederale, allontanandosi ancora di più in questo modo la possibilità per i lavoratori di poter intervenire e far valere le proprie ragioni.
Questo, è tanto più dimostrato dal fatto che per il pubblico impiego si è stabilito che questo indice previsionale avrà solo un valore di riferimento nell’ambito delle risorse destinate agli incrementi salariali il cui ammontare sarà definito dai Ministeri competenti previa concertazione con le parti sociali; l’indice sarà applicato ad una base di calcolo costituita dalle voci di carattere stipendiale e mantenuto invariato per il triennio di vigenza del contratto.
Figuriamoci quali aumenti salariali potremo aspettarci se per voci di carattere stipendiale si intendono solo i minimi tabellari!
C’è, inoltre, da rilevare che per il pubblico impiego - a differenza del settore privato, per il quale il recupero degli scostamenti tra l’inflazione prevista e quella effettiva sarà effettuato nel triennio di vigenza contrattuale - gli eventuali scostamenti saranno valutati alla scadenza dei tre anni e gli eventuali recuperi avverranno nel triennio successivo tenendo conto dei reali andamenti delle retribuzioni di fatto del settore!
L’esclusione della parte energetica, la riduzione della base di salario da adeguare e i meccanismi di verifica e di adeguamento, producono un’evidente e fortissima diminuzione della tutela del salario dall’inflazione da parte del CCNL.
E, poiché al peggio non c’è mai fine, al punto 16 dell’accordo è prevista la possibilità che il CCNL subisca deroghe in pejus sia per la parte salariale che normativa nell’ambito della contrattazione di secondo livello, aziendale e territoriale, naturalmente sempre al fine di tener conto di situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico e occupazionale!
Insomma, si stabilisce che la dinamica retributiva possa anche diminuire, per favorire la crescita economica, che è esattamente quello che è successo negli ultimi 16 anni, quando l’aumento dei profitti è stato raggiunto con politiche di compressione dei salari, di precarietà, di lavoro in nero, di migliaia e migliaia di morti sul lavoro.
La contrattazione collettiva nazionale o confederale potrà, inoltre, definire nuovi strumenti di bilateralità (enti di diritto privato costituiti da imprese e sindacati) per la gestione di servizi integrativi di welfare, relativamente all’erogazione, ad esempio, di sussidi o integrazioni al reddito, compiti finora assegnati esclusivamente ad enti pubblici come l’INPS.
I tempi e le procedure per la presentazione delle piattaforme sindacali, l’avvio e lo svolgimento delle trattative verranno regolate da specifiche intese.
Alla scadenza dei contratti, sempre che le parti rispettino i tempi e le procedure come sopra definite, è previsto un meccanismo di copertura economica (che sostituisce l’attuale strumento valido per tutti i settori dell’Indennità di Vacanza Contrattuale – IVC ed eventuali arretrati), che sarà stabilito nei singoli contratti collettivi e a favore dei lavoratori in servizio alla data di raggiungimento dell’accordo.
Per consentire il regolare svolgimento del negoziato, saranno definite le modalità per bloccare gli scioperi durante le trattative contrattuali (tregua sindacale).
Per anni, da parte di CGIL-CISL-UIL, si è detto che per rendere più pesanti le paghe dei lavoratori bisognava allargare il campo della contrattazione di secondo livello, anche introducendo elementi cogenti per le imprese al fine di favorirla e, comunque, prevedendo nel contratto nazionale un incremento salariale aggiuntivo per tutti i lavoratori delle imprese in cui il secondo livello non esiste. Ebbene, nell’accordo quadro, questo elemento salariale di garanzia è ridotto a mera eventualità da decidere in sede di contratto nazionale!
In più, alle aziende, per incentivare la contrattazione di secondo livello, sono concessi benefici notevoli consistenti in sconti fiscali e contributivi purché riferiti ad aumenti legati alla produttività, che deve tener conto, non solo dell’aumento della produzione ma, anche, dell’andamento economico complessivo dell’impresa.
Il senso di questa operazione è chiaro: le imprese che daranno luogo alla contrattazione decentrata risparmieranno sul costo del lavoro a spese del bilancio pubblico, per mantenere in pareggio per il quale si dovranno ridurre le spese sociali, con tutte le conseguenze del caso sul reddito del lavoro dipendente.
Insomma, il gioco delle tre carte, dove a rimetterci sono sempre gli stessi, i lavoratori.
Per il pubblico impiego, l’incentivo fiscale/contributivo sarà concesso, gradualmente e compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, ai premi legati al conseguimento di obiettivi quantificati di miglioramento della qualità dei servizi ecc.ecc.
Difficilmente, quindi, la gran parte dei dipendenti pubblici potrà accedere al salario di produttività, che finora ha rappresentato una parte consistente dello stipendio mensile.
Per le piccole e medie imprese sono previste, in deroga al CCNL, regole apposite per la contrattazione di secondo livello, anche a surroga degli aumenti contrattuali decentrati.
Entro 3 mesi sono previsti accordi per nuove regole in materia di rappresentanza sindacale, anche con certificazione all’INPS delle iscrizioni sindacali; con le nuove regole si potrà stabilire il diritto di proclamare scioperi nei servizi pubblici locali solo dall’insieme dei sindacati rappresentativi della maggioranza dei lavoratori (sempre fuori dalla tregua sindacale e per le materie della contrattazione di secondo livello).
Ricordiamo che, nella nostra Costituzione, è scritto che il diritto di sciopero appartiene ai lavoratori e, sebbene nel corso di questi anni sia stato ampiamente limitato, ha continuato comunque a garantire la possibilità per i lavoratori di far valere le proprie ragioni.
E’ prevista la riduzione del numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro nei diversi settori con le già viste ricadute concrete in sede di armonizzazione al peggio tra i vari contratti e, anche, con conseguenze gravi sulla rappresentatività sindacale, con il tentativo evidente di far fuori i sindacati di base e qualunque espressione conflittuale organizzata, nonché di annullare qualunque possibilità di partecipazione democratica dei lavoratori nelle decisioni sulle piattaforme e su qualsiasi altro aspetto che li riguardi.
Come si vede è un’autentica riscrittura della natura stessa del concetto di sindacato, con il proposito di portare a termine il progetto cui si era dato il via con la concertazione.
L’autonomia e l’indipendenza del movimento dei lavoratori dagli interessi del padronato vengono cancellati dentro un progetto autoritario e regressivo.
Il sindacato diventa uno strumento, ancora più coercitivo, funzionale alle imprese e complice delle loro scelte, in un mondo dominato dalla competizione tra le diverse aree dello sviluppo capitalistico.
Le lagnanze della CGIL hanno il sapore di lacrime di coccodrillo dopo che, per anni, ha contribuito a demolire garanzie e tutele dei lavoratori, non ultimo con la piattaforma unitaria, con cui, insieme a CISL e UIL, hanno dato il via alla riforma della contrattazione; chiedevano “l’ammodernamento del modello contrattuale, il potenziamento del secondo livello di contrattazione, la valorizzazione del merito”.
Chi è causa del suo mal pianga se stesso, verrebbe da dire se in ballo non ci fossero le condizioni di vita e di lavoro di milioni e milioni di sfruttati.
Ai sindacati di base, ai lavoratori spetta, ora, mobilitarsi non solo per respingere questo accordo ma per impedire che esso trovi applicazione negli accordi di categoria, aziendali e territoriali.