LE SCUSE DEI PADRONI NON SERVONO AI LAVORATORI

Roma -

E’ di qualche settimana fa la mirabile sentenza che ha condannato l’amministratore delegato della ThyssenKrupp a 16 anni di carcere per omicidio volontario in relazione al tragico rogo verificatosi nello stabilimento di Torino nel dicembre del 2007 che ha provocato la morte di  7 operai.

Tale incidente è stato determinato dal mancato rispetto delle norme di sicurezza dettato dall’intento perseguito dai vertici dell’azienda tedesca di dismettere la sede di Torino sospendendone anche la manutenzione ordinaria.

La suddetta sentenza  è stata accolta con estrema soddisfazione dai lavoratori e soprattutto dai parenti delle vittime che, grazie a tale pronunciamento, almeno non hanno subito l’ulteriore inaccettabile sofferenza causata dall’ennesimo caso di giustizia negata. E’ stata ovviamente condivisa ed apprezzata da tutti coloro che, come questa Organizzazione Sindacale, stanno contrastando l’attacco concentrico ai diritti dei lavoratori nel nostro paese a partire proprio dalle norme che tutelano la salute e l’integrità fisica sul posto di lavoro.

Infatti, con il pretesto di semplificare le norme “burocratiche” recate dal D. Lgs.  n. 81/08, l’attuale governo, non appena insediato, ha realizzato la controriforma depotenziando il previgente provvedimento che, ricordiamo, era stato proprio ispirato ai tragici eventi di Torino.

Il tutto è avvenuto con preciso accordo con le parti datoriali e grazie al silenzio assordante o al flebile lamento dei sindacati confederali e concertativi che, come di consueto, dimostrano la loro inadeguatezza nella tutela dei lavoratori.

Con il D. Lgs. n. 106/09 sono state inserite corpose e rilevanti modifiche che hanno determinato la riduzione dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori attraverso lo svuotamento dell’art. 9 dello Statuto dei lavoratori. Si è proceduto, infatti, ad introdurre limiti alla responsabilità omissiva dei datori di lavoro e dei dirigenti per trasferirla su altri soggetti preposti (medico competente, lavoratori), alla eliminazione del Documento Unico Valutazione Rischi Interferenti per lavori brevi, alla possibilità di redigere il Documento di Valutazione del Rischio standardizzato per le imprese edili con numero di addetti inferiori a 50 unità (con evidenti  ripercussioni sulla valutazione analitica dei fattori di rischio che consente l’elaborazione di adeguate misure di prevenzione).  

Altrettanto gravi sono state le modifiche che hanno ridisegnato l’apparato sanzionatorio  che hanno visto la conversione dell’arresto in ammenda in molte fattispecie di carattere penale con sanzioni pecuniarie che sono state ridotte addirittura ad un quarto di quelle previste nel D.Lgs. n. 81/08, sempre che le violazioni non abbiano causato infortunio mortale o lesioni personali gravi. E’ stato, di fatto, smantellato il sistema che, attraverso il deterrente della condanna penale, perseguiva l’obiettivo di ridurre sensibilmente i numeri riportati dai bollettini di guerra riguardanti gli omicidi impunemente perpetrati nei luoghi di lavoro.

In questo scenario, la sentenza di cui trattasi è assurta immancabilmente agli oneri della cronaca proprio perché ha rappresentato un efficace argine nei confronti di quella deriva neoliberista imperante, propugnata dall’attuale governo in ossequio ai diktat anche di Confindustria e dal blocco di potere che entrambi rappresentano, che vede nella salvaguardia del profitto delle imprese l’unico valore cui va sacrificato anche la vita dei lavoratori divenuti oggetti invisibili, e non più soggetti sociali, colpevoli, oltretutto, di  non appartenere alla foltissima e maggioritaria schiera dei disoccupati.

Nell’attuale fase caratterizzata da ricatti e minacce di licenziamento e di delocalizzazioni annunciate dagli imprenditori nostrani ed europei, a cui fanno il paio i cedimenti propagandati come scelte di dignità dalle organizzazioni confederali (com’è avvenuto, da ultimo, nel referendum della ex Bertone laddove l’apparente dissidio tra la CGIL, la CISL e la UIL  si è dissolto come neve al sole ritrovando la tanto agognata unità e annullando qualsiasi possibilità di resistenza allo scempio della civiltà del lavoro), detta sentenza non poteva non essere ritenuta, da parte della Confindustria, un “unicum” foriero di un possibile allontanamento degli investimenti stranieri in Italia. L’applauso tributato all’amministratore delegato della Thyssen, incappato nelle maglie ancora non completamente sfibrate della giustizia italiana, nel corso del recente convegno della Confindustria a Bergamo non identifica solo un gesto di solidarietà nei confronti del malcapitato che ha sperimentato l’esistenza di un qualche ostacolo nel glorioso percorso di crescita di un inadeguato sistema industriale, capace solo di stritolare i propri lavoratori. Esso rappresenta l’espressione dell’idem sentire della classe padronale italiana che non ammette ostacoli nella strada tracciata dello smantellamento delle tutele individuali e sociali per  garantire l’affermazione definitiva di quel paradigma neoliberista, ormai profondamente penetrato nella società italiana, di cui deve essere permeata l’intera struttura della relazioni sindacali e, in ultima analisi, del sistema paese.

Le scuse successive, espresse dalla Confindustria, per l’innaturale applauso scaturito all’apparire dell’amministratore delegato della Thyssen, non hanno alcun valore ma rispondono, opportunisticamente, alle esigenze della classe padronale di mantenere l’auspicato “nuovo patto sociale” (in via di definizione proprio tra la stessa Confindustria e CGIL-CISL-UIL) che garantirebbe il completo asservimento dei lavoratori alla logica dell’impresa.  

Il risultato di quanto detto è sotto gli occhi di tutti e mentre apprendiamo, senza troppo entusiasmo, che è stato abbattuto in Italia il muro dei mille morti sul lavoro  e che si registra un calo del 1,9 per cento degli infortuni sul lavoro nell’anno 2010 (dati  Inail ovviamente sottostimati che non tengono conto né del decremento del numero degli occupati, né degli infortuni non denunciati occorsi nell’ambito del lavoro sommerso e dei lavoratori precari e ricattabili che muoiono “in nero”) e leggiamo, di contro, che dall’inizio del corrente anno ci sono 227 morti per infortuni sul lavoro  (dati dell’Osservatorio Indipendente di Bologna al 12.05.2011) con un trend positivo del 29,8 per cento rispetto al 2010, ci rendiamo conto che il mondo del lavoro italiano di quelle scuse non sa cosa farsene.

Anzi ci confermano, se mai ce ne fosse bisogno, la convinzione che il problema della sicurezza sul lavoro, nel nostro paese, deve costituire un elemento prioritario su cui incentrare le massime energie e l’attività di tutto il sindacalismo indipendente.